Andiamo avanti, perchè no. Il tempo per leggere semplicemente non esiste più, si è sbriciolato, per cui prevedo che queste raccolte di recensioni saranno sempre meno frequenti. Ma mi diverto, per cui, come si diceva, andiamo avanti, sempre nel segno della più totale variabilità e incoerenza di stili e autori che già avevano caratterizzato
la prima e la
seconda raccolta di recensioni Ho anche notato che sto dilungandomi sempre di più nelle recensioni stesse. Conoscendomi, era prevedibile. Vuole dire che ci ho preso gusto. Che cosa offre la casa oggi?
Intervista col vampiro, di Anne Rice (trad. di M.Bignardi, 1a ed. 1977, formato Kindle): Sono da sempre un appassionato di letteratura fantastica (e non solo letteratura) e tra tutte le figure che la popolano quelle dei vampiri sono tra le mie favorite. Adoro tutto dei vampiri. Sono cintura nera di vampirismo (e infatti quello pseudodramma stile Cioè/Harmony di Twilight lo evito finché posso).
Per questo motivo non vedevo l'ora di leggere questo libro, popolarissimo, addirittura un caso letterario ai tempi della mia adolescenza (che arrivò pure al cinema, con il blockbuster di Neil Jordan nutrito di un cast stellare che includeva Tom Cruise e Brad Pitt) e a detta dei più il migliore della serie di Ann Rice, che sui vampiri ci ha poi costruito una carriera.
Forse le aspettative erano troppo alte, fatto sta che ne sono rimasto deluso. Ma tanto. La Rice scrive molto bene, intendiamoci, tecnicamente benissimo. Con mestiere sfoggia una prosa simil-ottocentesca, in linea sia col personaggio del vampiro narratore, sia con i romanzi che hanno fatto la storia del genere. Questa maniera di narrare però trascina con sè molti dei propri limiti, risultando a volte (spesso, molto spesso) ridondante e priva di ritmo. Le atmosfere decadenti che la scrittrice evoca continuamente e pesantemente, risultano esasperate, fastidiose e noiose, senza nemmeno la scusante di essere prodotte in un momento storico in cui erano in linea coi gusti dei lettori. Certo, il gioco stilistico è certamente originale per i tempi moderni, ma ora non funziona più e dopo poco, pochissimo, stanca. Molti romanzi tardo-ottocenteschi sanno anche essere affascinati e hanno ancora oggi una loro maniera di coinvolgere il lettore. Forse perchè non del tutto spontaneo, ma giocoforza risultato di un processo di creatività studiato, questo invece non ce la fa.
Altro punto importante, che si interseca a doppio filo con il gioco di atmosfere e scrittura: un libro del genere è ovvio che sia permeato di violenza, è quello che i lettori si aspettano e che il genere richiede. Nulla di male, al contrario. Garantisco che io non sono assolutamente refrattario o insofferente alla stessa (da vecchio cultore di film splatter estremi, ad esempio. e non aggiungo altro..), eppure a lunghi tratti la violenza in questo libro è di troppo, ma semplicemente perché "sbagliata", "malata"... Non porta con sé quella sorta di eccitazione, brutta o bella che sia, che è il motivo per cui agli amanti del genere risulta accattivante e li intrattiene, avviluppandoli nella lettura. Non so se in maniera voluta o meno, ma la scrittrice costruisce situazioni violente e pseudo-orrorifiche (ma nemmeno troppo, ho letto ben di peggio) che risultano semplicemente tristi e amare, che causano malessere interiore, tristezza, senza assolutamente emozionare o coinvolgere.
In ultimo, la maniera stessa in cui è il libro è costruito, e cioè l'intervista che non è un intervista ma un monologo fiume, dà la stura a lunghi momenti di instrospezione estrema e continua, ripetuta e asfissiante, aggravata come detto dalla prosa pesante e decadente. Quando la micronarrazione di un episodio potenzialmente coinvolgente raggiunge il suo apice, ecco che lì si interrompe per sviscerare i sentimenti del suo narratore, dilungandosi in maniera asfissiante, rovinando così il climax costruito.
Il libro non è tutto così, ovviamente. Qua e là, in maniera maggiore con lo scorrere delle pagine, un po' si riprende, e vi si trovano sparsi momenti anche notevoli, serrati, brillanti e molto piacevoli da leggere. Peccato, veramente peccato, che ne vengano soffocati da tutto il resto. Non lo affosso totalmente, qualche emozione e qualche bella pagina me l'ha regalata, ma cavolo che faticata!
Uomini e no, di Elio Vittorini (1a ed. 1946, letto in una vecchia copia della collezione Oscar Mondadori di mio padre di cui sono gelosissimo): uno dei libri più celebrati sul periodo della seconda guerra mondiale e sulla resistenza scritto uno degli autori più celebrati della letteratura italiana. L'ho preso in mano dopo aver visto una trasmissione televisiva su Rai 5 che ne parlava. In questa trasmissione, nonostante uno scrittore avesse portato argomenti a sua difesa, i vari intervistati lo hanno pesantemente affossato, giustificandone la fama con la felice scelta del momento in cui è uscito (subito dopo la fine della guerra) e la "sponsorizzazione" politica. E a me, da bravo bastian contrario, è venuta subito voglia di leggerlo.
Devo dire che dopo le prime (poche) pagine, mi sono chiesto perché lo avessi fatto, visto che vi ritrovavo tutti gli aspetti negativi dei quali ero stato avvisato e sui quali concordavo in pieno. La prosa risulta artificiosa, probabilmente furba, che strizza l'occhio alle letterature in quegli anni in fermento degli altri paesi ma senza possederne l'originalità, e che sembra voler stupire a tutti costi. In questo senso il ruolo di innovatore della letteratura italiana di Vittorini ne viene notevolmente sminuito. Un libro che si propone con intenti quasi documentaristici ma che d'altro canto risulta poco limpido (verosimile, ma non vero) nella sua scrittura. Con voli pindarici, di immaginazione e di stile, forzatamente astratti e difficili da seguire, flashback confusi e irreali. Con risultati ben al di sotto dei supposti intenti.
Eppure...
Eppure sono contento di essere andato avanti nella lettura. Se la sperimentazione non gli viene così bene, beh, c'è la storia. E la storia è tosta, semplice e bella. Sì, la vicenda d'amore che fa sottofondo alla guerra è un cliché dei più ovvi e banali, finto e hollywoodiano anche per l'epoca, e nei momenti in cui è di questa che si parla, è proprio lì che le descrizioni e i commenti diventano forzosi, i dialoghi così irrealmente pseudopoetici da sfiorare, varie volte, il ridicolo. Ma la storia rimane potente. I personaggi sono forti e maliconici, sanno che la vittoria è alle porte ma sono tristi per tutto quello che hanno subito e stanno subendo. E non si fermano, continuano a distruggere, a morire e a far morire. Gli orrori sono vivi, e descritti in maniera lucida ma leggera, a colori vivaci e intensi ma rispettosamente. È chiaro che quelle più che descrizioni, sono testimonianze, fotografie mentali. E forse le pagine degli strampalati dialoghi d'amore servono anche a contraltare e contrastare la forza della brutalità di quei giorni, in un tentativo di ricerca di equilibro (non che questo le giustifichi, visto il risultato, ma le può spiegare).
Inoltre, un paio di pagine in particolare delle riflessioni di Vittorini sono potenti, laceranti, e applicabili facilmente anche ai giorni nostri. E tramite il personaggio meno sospettabile di tutti, un cane, la domanda esplode in tutta la sua ferocia ed ci si accorge che é l'unica cosa che conta, che ha sempre contato, lo spunto che dà il titolo al libro: Che cos'è un uomo? Che cosa non lo è? Fino a che punto possiamo decidere di esserlo?
Se si è in grado di andarne al cuore, semplicemente, ignorando gli orpelli e gli artifizi, un libro che può pure non entusiasmare, ma che di sicuro lascia il segno.
Il tempo dei maghi (Rinascimento e modernità) di Paolo Rossi, (1a ed. 2006, formato Kindle): Ci si può avvicinare a un libro per i motivi più disparati. Questa volta per me la ragione è stata particolare. Ho iniziato a leggere questo bel tomo di 379 pagine semplicemente perchè irresistibilmente attratto dal titolo, nulla più. Non sapendo tra l'altro (data la mia ignoranza in materia) che l'autore fosse uno dei più importanti storici e filosofi della scienza contemporanei. Durante la lettura me ne sono reso conto abbastanza presto, a dire il vero. Il testo ripercorre criticamente la storia che ha portato alla nascita della scienza e del pensiero scientifico, alla formazione dell'accezione che diamo oggi al termine. Il suo distacco graduale, per nulla semplice e scontato, dalla magia naturale e dall'alchimia. Rossi ne descrive gli antefatti, a partire dai tempi remoti dei pensatori ermetici e neoplatonici e si sofferma a lungo analizzando il cuore di questo processo, localizzandone i momenti chiave, descrivendone evoluzioni e involuzioni nel Rinascimento sino a metà '600, per concludere illustrandone il lascito all' età moderna. Un bel ripassone di quanto poco e malamente studiato al liceo (ma, devo dire, grazie alla mia iniziativa personale in maniera un po' più seria anche in un esame facoltativo universitario), con notevoli approfondimenti e elaborazioni interessanti. In aggiunta, ed è la caratteristica di questo testo che un curiosone come me non poteva non apprezzare, è presente nel libro una notevole aneddotistica a corredo delle lezioni, che si rivela preziosa e intrigante, e che mi ha aperto un sacco di caselline con punti di domanda nella mente impreparata, dandomi vari spunti per divagazioni di studio e addirittura qualche ideuzza di scrittura. A un' ora di lettura ne veniva quasi sempre affiancata un'altra di ricerche in rete.
(Una per tutte: che Newton fosse un appassionato studioso di alchimia, tanto da descrivere i suoi lavori nel campo della fisica come distrazioni da quello che considerava il suo impegno principale, non lo ricordavo proprio, se mai l'ho saputo. E così via.)
L'obiettivo è sempre quello di di evidenziare quel lento e contrastato cambio di paradigma che ha sancito la fine della "magia" come scienza reale e che ha portato al consolidarsi del pensiero scientifico moderno.
Rossi illustra efficacemente le sue idee, da insegnante e accademico, con citazioni dotte e sempre opportune, con la confidenza evidente dello studioso affermato (questo è uno dei suoi ultimi testi pubblicati).
Si realizza subito come l'autore, approfittando probabilmente della posizione raggiunta e della veneranda età, non esiti a togliersi più di un sassolino accademico dalla scarpa, facendo elegantemente a pezzi alcuni suoi colleghi. Questa cosa a dire il vero non dovrebbe costituire ragione di plauso, ma lavorando in ambito accademico non ho potuto che gustarmelo divertito.
In particolare Rossi se la prende con Giordano Bruno. Cioè, non proprio con lui ovviamente, ma con la lettura che vari altri studiosi del filosofo fanno del suo pensiero, sovrastimandone, secondo Rossi, i meriti in termini di rivoluzionario e innovatore della mentalità scientifica. La figura di Bruno, cui Rossi dedica una sostanziosa porzione del libro, ne esce notevolmente ridimensionata in questo senso. Io non sono un esperto, né uno studioso della materia, e le mie conoscenze nell'ambito sono quelle di base, per cui gli è stato probabilmente molto facile convincermi, ma l'autore porta argomenti validi a sostegno della propria teoria, supportati da citazioni e testi originali difficilmente contestabili.
Al contrario, viene data rilevanza al contributo alla creazione del concetto moderno di scienza dato da altri pensatori, Francis Bacon in primis, nonché illustrata l'inaspettata influenza che personaggi minori hanno avuto nella rottura di dogmi consolidati, come Francesco Patrizi che con le sue critiche all'immobilità del pensiero copernicano, è stato tra i prima a liberare il campo all'avvento della nuova concezione del sistema solare di Keplero.
Insomma un libro che mi sono goduto, che mi ha coinvolto in riflessioni appassionate, nonostante lo abbia letto in un'estate fisicamente faticosa, riflessioni per me (non avvezzo a questo tipo di ragionamenti) più che sufficientemente impegnative.
Una lettura valida sia per chi è appassionato di scienza e vuole aggiungere una dimensione diversa alla propria conoscenza rispetto al consueto bagaglio tecnico, sia per chi la storia della filosofia la padroneggia meglio, ma vuole approfondirne l'evoluzione specifica in ambito scientifico.
Il colore della magia e
La luce fantastica di Terry Pratchett, (trad. di N. Callori, 1 ed. 1989 e 1991,
Kindle). E vabbé. Qui si sfonda una porta aperta. Parlo dei due libri insieme perché li ho divorati uno di seguito all'altro, e visto che il secondo riparte nel punto esatto in cui il primo si era concluso, io li ho vissuti come un unico librone. I primi due libri del Ciclo di Scuotivento, un caposaldo del mondo fantastico creato dall'autore-culto Terry Pratchett. Ho girato attorno a Pratchett per anni, senza mai cogliere l'occasione per leggerlo, anzi per qualche strana coincidenza la sua enorme e celeberrima creazione letteraria mi era pressoché totalmente ignota: non mi erano arrivate recensioni, informazioni, nulla perché ne fossi incuriosito, in tutti questi anni. Poi è capitato, ho afferrato il nome che mi passava sotto il naso e ho cominciato.
Per i pochissimi che come me ne ignoravano le caratteristiche, i romanzi dell'universo creato da Pratchett sono esilaranti storie di stampo fantasy, dove l'autore, giocando con i cliché del genere, sovvertendoli e spesso ridicolizzandoli, dà sfoggio di un incredibile fantasia, e spiazzando continuamente il lettore lo trascina con sé, appassionandolo alle avventure dei suoi eroi.
I personaggi dei suoi romanzi sono legati tra loro, e spesso quella che è una figura di secondo piano in una storia, che appare brevemente e come poco più di una comparsa, diventa l'eroe di un altro libro, dove è la sua di storia sulla quale l'autore si concentra. Pratchett non è l'unico ad aver usato questa tecnica, ma è l'unico (a quanto ne so) ad averci costruito un intero universo narrativo, sparso per decine di libri, storie brevi e racconti.
Qui si segue il mago Scuotivento, dalla leggendaria inettitudine, sballottato da un'avventura all'altra contro la propria volontà, eppure fortunatissimo nel cavarsela sempre , per il grande cruccio di Morte, che non riesce a catturarlo. Un perdente nato, con caratteristiche diametralmente opposte all'eroe, ma che è al tempo stesso distante anni luce dall'antieroe hollywoodiano e maledetto. Scuotivento vuole semplicemente tornarsene a casa, e fuggire a gambe levate quando c'è pericolo in vista, ma non ci riesce. Gliene capitano di tutti i colori, finisce in situaizoni di estremo pericolo, ma si salva, sempre, per un pelo. E seguendo lui incontriamo una serie soprendente di personaggi, uno più bizzarro e strampalato dell'altro, che scorrazzano su e giù per un mondo ancora più strano e incredibile. Il sogno dei terrapiattisti, un pianeta bidimensionale, Mondodisco, appunto, un piatto che se ne sta appoggiato sul dorso di quattro elefanti, che a loro volta sono appoggiati sul guscio di una gigantesca tartaruga che vola placidamente per lo spazio buio.
Pratchett gioca, scherza, non si prende sul serio, e per questo motivo può fare quello che gli pare, sovvertire non solo le regole del genere ma anche e soprattutto quelle della scrittura. Lo fa abilmente, tenendosi l'attenzione del lettore, che accetta di essere sballottato qua e là, abbandonato e poi ripreso, catapultato nel tempo, lasciato nel nulla senza informazioni, proprio come i personaggi delle sue storie. Al tempo stesso però, come tutti i bravi umoristi, lancia più di un messaggio sociologico (questo aspetto della sua narrativa mi dicono verrà sempre più rafforzato nei libri seguenti). Una nota sulla traduzione, che appare non molto curata, con sviste evidenti e scelte questionabili (leggo su internet che i fan dello scrittore la detestano). Il fatto che il primo romanzo fosse stato pubblicato per la prima volta nella collana Urania di Mondadori, che sfornava a catena fantascienza da consumo, potrebbe forse esserne la spiegazione.
Insomma, mi sono divertito, e o deciso di andare a fondo e leggere tutti i libri della saga del mondo disco. Quanti sono? Appena 41.